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Se sono una persona con disabilità, merito meno cure?

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Quando l’ospedale discrimina. Ce ne parla Nicola Panocchia, Coordinatore del Comitato scientifico della Carta dei diritti delle persone con disabilità in ospedale

Nicola Panocchia è uno che non si scoraggia. Come potrebbe? Preoccupazioni e scelte difficili certo non gli mancano, in qualità di dirigente medico presso il Policlinico A. Gemelli di Roma, ma ancora di più nel suo ruolo di coordinatore scientifico della Carta dei diritti delle persone con disabilità in ospedale. Deve cambiare il mondo, lui, poco alla volta. Di scoraggiarsi, quindi, neanche a parlarne.

“Quando Luigi Vittorio Berliri  – ci dice  Nicola – mi raccontò la storia di Tiziana di CASABLU, è come se mi avesse riportato la storia di tantissimi altri pazienti trascurati, discriminati, mal curati, abbandonati. Il presidente di Spes contra spem mi chiese quindi di rintracciare specialisti competenti che potessero raccontarci la propria esperienza nella cura di pazienti con disabilità e aiutarci nella stesura di quella che oggi è la nostra Carta”.

La Carta viene così redatta e presentata per la prima volta nel 2013. Oggi, all’inizio di questo 2018, c’è purtroppo ancora tanto da fare.

 

DATI SCONFORTANTI E DATI CHE NON CI SONO

Come probabilmente già noto a chi segue Spes contra spem, nel 2014 è stata lanciata la prima  Indagine conoscitiva sui percorsi ospedalieri delle persone con disabilità.

“Un modello eccellente – ci racconta Nicola – già l’avevamo. Proprio l’anno prima l’Università di Bristol aveva concluso il suo Confidential Inquiry into Premature Deaths of People with Learning Disabilities (CIPOLD) sulla base di un rapporto  allarmante – intitolato ‘Death by Indifference‘ – in merito alla morte ingiustificabile di sei persone con difficoltà di apprendimento che morirono durante un ricovero ospedaliero. Il nostro pensiero non poteva non correre a Tiziana.

Dall’indagine britannica emersero dati inquietanti. Secondo il CIPOL, infatti, quasi la metà dei decessi ospedalieri dei pazienti con disabilità cognitive erano dovute al semplice fatto che il personale non sapeva come visitarli, come curarli o anche solo come gestirne il ricovero. Il quadro era sconsolante ma – va sottolineato – fu lo stesso Governo Britannico a finanziare l?indagine”.

E in Italia?

“Mi duole dire che l’indagine è il frutto principalmente dell’impegno di Spes contra spem onlus, con l’aiuto prezioso della  Fondazione Ariel, dell’Osservatorio Nazionale sulla salute nelle Regioni ItalianeUniversità Cattolica del Sacro Cuore di Roma e della Fondazione Umana Mente del Gruppo Allianz. In parole povere, è stata un’iniziativa puramente privata. Ciononostante siamo riusciti a raggiungere un migliaio di ospedali italiani ma – altra nota dolente – meno del 20% delle strutture ha risposta ai nostri quesiti”.

Anche se i dati sono parziali, siete riusciti a delineare un quadro dell’accoglienza dei pazienti con disabilità da parte degli ospedali italiani?

“Sì, ma è un quadro desolante. Solo nel 36% degli ospedali che hanno risposto, infatti, è previsto un percorso prioritario per i pazienti con disabilità. Percentuale che crolla al 12,4% se parliamo di strutture adeguate nei Pronto Soccorso. Nessun ospedale, tra quelli che hanno risposto, ha poi una mappa tattile per i non vedenti. Questi dati poi si aggravano se passiamo dal Nord Italia al Meridione. Potrei continuare a ‘snocciolare’ numeri (consultabili nel testo della nostra indagine) ma il punto è questo: i pazienti con disabilità sono discriminati nell’accesso alle cure. Per la presenza di quelle che noi chiamiamo barriere sanitarie, che sono sì architettoniche ma soprattutto culturali e organizzative. E questo deve cambiare!”.

 

“QUALITÀ DI VITA” NON SIGNIFICA “FUNZIONALITÀ”

Come si cambiano quindi le cose?

“Innanzitutto va cambiata la mentalità degli stessi operatori. Sì, perché non puoi riorganizzare i percorsi e adattare le strutture se chi ci lavora non sa come prendersi cura dei propri pazienti, che sono prima di tutto persone. La persona o la sua dignità non viene definita sulla base del suo funzionamento o della sua utilità alla società, come sostengono alcuni bioeticisti e filosofi. Entrando in relazione con un qualsiasi paziente (per quanto alte e spesse siano le barriere comunicative che ci dividono) e con chi gli sta accanto, posso scoprire un mondo interiore preziosissimo. Un tesoro che, come operatore sanitario, non posso permettermi di perdere”.

Eppure ancora oggi avvengo in Sanità autentiche aberrazioni.

“Basti pensare all’ordine di ‘non rianimare’ (DNR – Do Not Resuscitate) che in molti ospedali britannici viene annotato ‘come prassi’ in molte cartelle cliniche di pazienti con gravi disabilità cognitive. E quest’ordine viene impartito non perché il paziente è affetto da una malattia in fase terminale, caso in cui la rianimazione cardiorespiratoria potrebbe configurarsi come accanimento terapeutico, ma semplicemente perché ha una grave disabilità. L’anno scorso, i giornali inglesi riportarono la vicenda di un uomo con Sindrome di Down ricoverato in ospedale per una polmonite, per il quale era stato impartito il DNR. I genitori l’hanno scoperto solo dopo aver ritirato la cartella clinica alla dimissione del figlio, che fortunatamente era guarito. Ebbene, l’ospedale ha dovuto pubblicamente chiedere scusa.

Ciò è accaduto perché i sanitari avevano l’errata convinzione che non valesse la pena di tentare tutto il possibile per salvarlo, dato che, in fondo, non il paziente non aveva una prospettiva o una qualità di vita accettabili. Il problema è chi decide quale qualità di vita sia accettabile?”.

 

Altro tema molto delicato è il trapianto d’organo.

“È complicato, lo so. Ma solo in apparenza. Certo, è fin troppo facile pensare che un organo donato a un paziente con grave disabilità fisica e cognitiva sia ‘sprecato’ (che parola brutta, davvero brutta!). Tuttavia la legislazione e le linee guida cliniche in merito alle lista dei trapianti, esistente già dagli Anni ’70, ci viene in aiuto. Di base, le uniche limitazioni sono le condizioni cliniche del paziente  che devono essere tali da far prevedere una sopravvivenza a medio-lungo termine. Oggi la medicina ha migliorato di molto tale prospettiva per moltissimi pazienti con diverse tipologie di disabilità, i quali, una volta in lista, hanno gli stessi identici diritti di qualsiasi altro paziente. E qui sorge il dilemma etico che molti medici (per noi a torto) ancora si pongono nel decidere se inserire o meno un paziente con disabilità nelle liste trapianto. Addirittura, nel 2010 La Regione Veneto ipotizzò di escludere i pazienti con ritardo mentale dalle liste dei trapianti. Io e diversi esperti ci battemmo a lungo contro tale delibera”.

Oggi, però, non è un problema giuridico ma di coscienza?

“Purtroppo sì. È lo stesso concetto di “qualità di vita=funzionalità” che va scardinato. Noi sia convinti invece che la qualità di vita si debba calcolare soprattutto in base alla soddisfazione della persona, che spesso è molto più alta di quanto creda chi osserva dal di fuori. È questo è dimostrato da diversi studi effettuati sulla qualità di vita della persone con disabilità. Se riusciamo a far capire questo, a tutti, le mancanze e le aberrazioni del sistema sanitario non potranno che cadere”.

 

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